di Maria Torrisi

 

 

 

Sembra un gioco questo dilagare a inizio d’anno di classifiche e top ten: un fenomeno all’apparenza innocuo che, nelle intenzioni di chi pubblica, dovrebbe servire a catturare l’attenzione di lettori un po’ distratti. Ma il gioco nasconde una trappola feroce. 

I titoli sono perentori e asciutti e si abbattono inappellabili come sentenze: “I dieci ristoranti top”, “I magnifici 25 del 2017”, “La classifica gourmet”, “I migliori chef dell’anno” e via esaltando. 

Ma sotto il manto dei presunti allori per pochi si celano i calci e i pugni ai veri protagonisti del comparto, ai tanti ottimi cuochi che ogni giorno, senza ostentare vanto e senza sbandierare gloria, nel silenzio delle loro laboriose cucine, fanno girare l’economia del settore, gratificano il palato dei clienti con ricette eseguite alla perfezione, e osservano con cura, rigore e professionalità i principi della sana preparazione dei cibi. Così quei titoli ad effetto, che vorrebbero racchiudere in un cerchio d’oro il presunto gotha dei più bravi, di fatto non risultano “innocui” alla categoria dei cuochi che, nell’agone mediatico – dove non ci sono spade, ma la competizione tra ristoranti si combatte al suono “lieve” di stelle, forchette, cappelli, like ed emoticon – subiscono ingiustamente i giudizi di molti giornali che sparano sentenze e incollano etichette. 

I piatti presentati – sempre più costruzioni geometriche complesse, ideate a volte solo per stupire, che sfidano ogni equilibrio con forme ardite e audaci accostamenti cromatici – sembrano posare muti e superbi davanti a fotografi e gastronomi come anoressiche modelle in passerella, mentre gli chef – ormai lontani dal fuoco vivo di fornelli da domare – dettano sentenze alle telecamere e ai microfoni di vuoti programmi televisivi.

Dove è finita la grande cucina italiana? Dove sono i maestri dell’arte dei sapori? E dove sono finiti i palati ghiotti di cibi buoni, genuini, riconoscibili, espressione diretta di territori e della ciclicità stagionale?Pare che in pochi ormai lo sappiano. Cuochi e critici gastronomici sono sempre in cerca “di altro”, di nuovo, di unico, di straordinario, a tutto discapito della qualità, anzi della tradizionale qualità italiana.

Troppi colleghi sono caduti nel vortice della competizione – dichiara Domenico Privitera, presidente dell’Unione Regionale dei Cuochi Siciliani – non badano che a suscitare clamore intorno a sé, andando alla ricerca di ciò che non è mai stato fatto in cucina o prendendo spunto da qualche idea di un grande chef, senza però accorgersi che ciò che più vale è il contesto, e che la composizione di ogni grande piatto è frutto dello sviluppo armonico di elementi consonanti, non un collage di pezzi presi a prestito da ambiti diversi”.

Il presidente Privitera non le manda a dire a quanti hanno esibito lacrime e dolore per la morte di Gualtiero Marchesi – che le stelle Michelin le rifiutò platealmente – e richiama gli chef a lavorare con umiltà, perché protagonisti siano gli ingredienti dei piatti e non le mani che li hanno costruiti. “Non c’è stato il doveroso rispetto – nota con rammarico Privitera – per un professionista che insegnava con l’esempio ai cuochi la consapevolezza di essere i sacerdoti del sacro rito dei gesti in cucina, perché ai suoi funerali molti sono entrati in chiesa indossando il cappello di chef, un simbolo della nostra divisa di lavoro che si mette via quando si prega per chi ci lascia”.

 

Il nuovo anno si apre con i buoni propositi enunciati, con tante parole che lascerebbero ben sperare in un deciso cambio di rotta, ma c’è subito  il passo falso nella trappola della competizione, il doloroso allontanamento dalla loro vera missione vera da parte dei cuochi che si lasciano ammaliare dalle sirene della vana gloria, perdendo di vista l’obiettivo primario del proprio lavoro che è la soddisfazione del cliente, la fedeltà ai principi di onestà, rispetto e competenza. 

Siamo stanchi di sentire da tanti cuochi il ritornello che si ispirano alla cucina della nonna – stigmatizza Privitera – perché le nostre nonne cucinavano con amore, si impegnavano con gioia per le persone che amavano, e sceglievano con cura ingredienti genuini e di stagione. Oggi, invece, alcuni di quei cuochi che si professano rispettosi della tradizione non amano affrontare la fatica del proprio lavoro, non hanno riguardo per i gesti sacri della cucina, non offrono con passione le loro attenzioni al cliente, che è il vero e solo destinatario del proprio lavoro.Nella loro vanità non c’è posto che per sé stessi, amano solo farsi elogiare, inseguono le candidature a tutti gli Oscar della vana gloria, scelgono ingredienti senza badare alla stagionalità e li mescolano a quelli inconsueti o esotici, solo per stupire. Il loro obiettivo è arrivare per primi nella corsa al successo personale, incuranti che così si danneggia un lavoro antico e sacro, una professione che è stata fatta grande da uomini e donne che hanno creduto nella forza della qualità degli ingredienti e nella cura con cui dovevano essere trattati, non nel richiamo ammaliante e magico di parole vuote e fumose come quelle dei titoli da top ten. Quando troveremo i legumi nei menù invernali dei ristoranti – conclude il presidente Privitera– potremo dire che lo chef si sia davvero ispirato alla cucina della nonna”. 

 

I tentativi ci sono e il coraggio va premiato, perché l’epoca del “fumo negli occhi” potrebbe essere presto destinata a esaurirsi. La qualità in cucina, a quel punto, potrà finalmente essere ricercata e riposta in una offerta seria, onesta e frammentata, diversificata per territorio e stagionalità, in cui il cuoco tornerà ad essere sacerdote e interprete di un rito sacro, e solo in forza di questa sua capacità potrà essere considerato protagonista.

 

A volte mi scoraggio – confessa Privitera – ma poi prevale la mia proverbiale fiducia e ritorno a sperare che tutti insieme si possa dare un senso vero alla nostra professione, impulso nuovo al nostro lavoro, valore e identità al gruppo. Per dare un segno alla società e lasciare alle nuove generazioni un buon esempio, una scia di luce sulla quale continuare a lavorare”.

 

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