matina calogerodi Calogero Matina

La disputa è all’ordine del giorno, forma tonda o a punta? Da buoni siciliani non soffermiamoci sulla forma, almeno per il momento, andiamo alla “sostanza”… e si riapre un’altra interminabile discussione: la scelta degli ingredienti da usare, se gli uni o se gli altri. Polemica, polemica, nient’altro che polemica!! L’argomento accende gli animi, tanto da dividere letteralmente l’isola in due, la parte occidentale con le sue accese convinzioni, la parte orientale con le “sue altre”. In questo clima, dove ad onor di cronaca, sentiti gli uni e ascoltati gli altri, tutti sembrano avere ragione, cercare di trovare accordi, risulta estremamente difficile. Scegliamo di rimanere cauti, in ogni nostra singola considerazione. Obiettivo? Sedare la disputa… o lasciare riflettere? Il nome del frutto dell’arancio qual è? Apriti cielo, ho la risposta!! È l’arancia, indicata naturalmente al femminile, quindi come si può discutere “sul certo”.

Ma

“Oddio” quando sento questa contrapposizione “m’arrizzanu i carni” perché signori miei la declinazione al femminile dei frutti in siciliano non è frequente quanto in italiano, l’arancia qui viene detta arànciu.

Al maschile “arancinu”, ma vi rendete conto? Sembra un giallo del commissario Montalbano… delle sfere di riso che richiamano la forma della melarancia.

Un lato oggettivo ci dice che il riso sia arrivato in Sicilia intorno al IX secolo con la conquista dell’isola ad opera dei musulmani “gli Arabi”, ma sono senza ombra di dubbio i Greci a farci conoscere il riso in Occidente e se la Sicilia, in quanto “colonia greca”, assorbiva in tutto e per tutto usi e consuetudini dai coloni elleni, ci viene da pensare che il riso sia stato noto nell’isola ancor prima dell’arrivo degli arabi. I Greci, dunque, lo conoscevano già, e così anche i sicilioti, ce lo dimostra “Teofrasto”[1] parlandone nel suo libro “Storie delle piante”.

Una “Spezia esotica” ecco come veniva considerato il riso dai legionari romani, tanto che in occidente, spesso veniva utilizzato per confezionare infusi adatti a curare il mal di pancia. Lontano anni luce direste dell’uso che ne facciamo adesso, ma andiamo indietro nel tempo, siamo intorno al 1300, e la parola riso compare per la prima volta nel “Libro dei conti della spesa” dei Duchi di Savoia come “spezia che arrivava dall’Asia, via Grecia”.

Diamo il merito agli arabi però per la sua diffusione del riso in Sicilia, favorendone lo sviluppo delle colture, ed entrando di prepotenza successivamente nelle abitudini alimentari dei popoli conquistati. Il riso, da lì a poco, sarebbe diventavo fonte economica rilevante anche per l’isola per poter appagare al meglio la fame dilagante. Siamo intorno all’anno Mille e la coltivazione di riso in Sicilia, inizialmente diede scarsi risultati, e ciò era dovuto al clima arido che faceva sicché le piante attecchissero con grande difficoltà. Lo stesso edotto Idrisi in Sicilia, non dà alcuna notizia di risaie nell’isola, una tale mancanza troverebbe una sua naturale motivazione, coltivare riso in Sicilia era talmente abituale da non essere degno di nota. Però bisognerà aspettare il XIV e il XV secolo per avere buone produzioni di riso nell’isola. E veniamo alla prammatica n° 7 del 1763, la conoscete? Beh se la risposta è no, essa fu la causa della chiusura di tutte le risaie in Sicilia. La legge dapprima prescriveva la distanza minima di due miglia dall’abitato delle risaie per via delle epidemie che i corsi d’acqua e le paludi generavano, ma solo nel 1820, solo in Sicilia, la distanza minima acconsentita fu portata a tre miglia. L’articolo sette della citata prammatica avrebbe mandato in prescrizione l’articolo stesso, quando si fossero presentati particolari condizioni di sofferenza. E come si dice, quando il diavolo ci mette lo zampino, diciamolo pure, al sud la malaria fece la sua bella parte, tanto che i paesi pian piano si spopolarono, sia per i decessi che per i flussi migratori. Nella sola piana di Catania, di dilaga a macchia d’olio la malaria ed inoltre fanno strage le febbri perniciose ed intermittenti. Peggio di così? Arriviamo al 1840 e parecchie risaie in Sicilia furono definitivamente soppresse. Quando si mangia un arancino, cari siciliani, si dovrebbe sapere che ad ogni morso corrisponde la storia di un territorio, di un popolo, e allora, ritorniamo agli arabi e ai loro usi; in segno di rispetto per il cibo e per abitudine consacrata mangiavano con la mano destra incocciando il riso giallo allo zafferano, ad altri intingoli dove vi era la presenza di tocchi di carne, o di pesce o verdure, o financo uova, ci viene naturale pensare che questa prassi abbia potuto rappresentare l’inizio della prima forma arcaica d’arancino, con chiari riferimenti alla matrice d’uso mediorientale. Parliamo della panatura, che ha tutta una sua storia, si perché, uova, farina e pan grattato generano quella meraviglia che durante la frittura diventa “la crosta”, l’involucro dorato che ci istiga alla salivazione e ad un incontrollato desiderio. La crosta, di sublime colore dorato, la cui “invenzione” viene fatta risalire ai cuochi dell’Imperatore Federico II, che in occasione delle battute di caccia del Re preparavano gli arancini per il proprio Imperatore. La crosta permetteva al riso e al suo ripieno di conservarsi più a lungo diventando quasi per magia un involucro di asporto. Asporto, si avete capito bene, trasportare da un posto ad un altro,

Ma…

Di nuovo quella maledetta contrapposizione che mi fa “arrizzari i carni”, ma mangiatele appena fritte, che sia un arancino o un’arancina, cosa aspettate, mangiatele calde, avendo cura di non ustionarvi, vi accorgerete che la sostanza vale più di mille forme. E ad ogni morso vi ritroverete fottutamente siciliani. La storia naturalmente continua..

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