di Maria Torrisi

Una ristretta selezione di gusti tipicamente siciliani e quel tanto d’alchimia che basta a stuzzicare la curiosità e il palato: questa è la formula di Peppe Barone, raffinato chef siciliano, che per tutto il mese di febbraio ha trasferito da Modica a Roma, nel moderno tempio della gastronomia italiana di Eataly, la sua cucina e i suoi interessi.

“Basta attraversare lo Stretto di Messina per rendersi conto che dell’arte gastronomica siciliana il grande pubblico non conosce altro che gli arancini, la pasta alla Norma, i cannoli e le cassate”, scandisce mesto, come se addentasse bocconi d’amarezza, uno degli chef che più ha legato il proprio nome e la propria fortuna alla ricerca costante delle segrete chiavi del gusto, tanto da essersi attribuito il magniloquente titolo di “gastrosofo”, cultore della filosofia del piacere a tavola.

“Il mio interesse è far scoprire nuove prospettive ai giovani cuochi, che invito a sganciarsi dagli stereotipi e ad individuare strade proprie, coltivando con orgoglio, curiosità e coraggio uno stile personale che li potrà rendere unici. Ma il salto di qualità non può avvenire prima che in loro si siano sementati alcuni studi fondamentali, come quelli sul territorio, la stagionalità, le tecniche delle lavorazioni e le tradizioni gastronomiche locali”.

Il freddo rigore che usa nello snocciolare la sequenza dei passi necessari per giungere alla formazione di un vero chef si sciogli
e ed evapora non appena Peppe Barone, che per anni ha insegnato alla “Nosco”, la scuola mediterranea di enogastronomia che la Curia ragusana ha creato nell’antico convento dei cappuccini di Ibla, aggiunge l’ultimo prezioso ingrediente alla sua formula del successo: il gioco. “Cucinare è come un gioco – dichiara spalancando un improvviso, luminoso sorriso – bisogna divertirsi ai fornelli, altrimenti non si potrebbero reggere i ritmi di un lavoro tanto faticoso, che ti prende come una malattia per non lasciarti più”. E se lo dice lui, che tra i suoi “contagiati” può annoverare anche chef stellati come Ciccio Sultano, Carmelo Chiaramonte o Pino Cuttaia ad esempio, c’è proprio da crederci.

“Formare i cuochi non è il mio obiettivo ultimo, perché offrire strumenti per far sviluppare la professionalità degli chef serve anche a far crescere una classe di consumatori consapevoli e preparati, che conoscono e ricercano a tavola i valori della buona cucina. Per questo, anche nella grande vetrina di Eataly – motiva lo chef siciliano intenzionato ad esportare cultura – ho inserito in menù piatti immediatamente riconoscibili come mediterranei, ma li ho in parte rivisitati e personalizzati, ma ho anche introdotto alcuni elementi meno conosciuti, non per inseguire velleità inutili in un ambiente orientato al commercio, ma per sollecitare curiosità e spingere alla prova”. Così, nel menù della temporanea succursale romana del ristorante modicano “Fattoria delle Torri”, oltre alla pasta alla Norma e agli arancini, alla cassata e ai cannoli, si trovano anche i tagliolini con la bottarga di tonno agli agrumi e i tonnarelli con sarde e finocchietto selvatico. C’è la parmigiana, ci sono le sarde alla beccafico e poi c’è il capone alla caponatina barocca”.

“E’ vero, il capone non è un pesce che si trova in inverno – conferma lo chef, inchiodato dall’evidenza che la stagionalità non pare suonargli da comandamento – ma l’ho scelto perché volevo far provare un prodotto sconosciuto al mercato romano, ingessato sul tonno e pesce spada, e visto che questa non è più la sua stagione, l’ho comprato in tempo e l’ho passato in abbattitore, per conservarlo congelato e servirlo durante questa trasferta romana. Il finocchietto selvatico poi è un prodotto per me irrinunciabile che richiedo ad un produttore siciliano che lo coltiva in modo biologico e che io uso per profumare di Sicilia i miei piatti”.

In equilibrio tra originalità ed esigenze commerciali, tra contenimento dei costi e qualità dei prodotti, la missione romana dello chef Barone poggia sul difficile piano del compromesso e cammina sul delicato filo che ondeggia tra la necessità meramente commerciale di vendere il prodotto e la spinta intellettuale ad usare la cucina per diffondere cultura.

“Anche all’expo di Milano – continua a motivare, snocciolando ricordi, lo chef Barone – ho presentato una pasta tipica fatta a mano, la Pastratedda, ma nessuno la conosceva e nessuno la sceglieva. Ho impiegato molto tempo a spiegare il valore di quest’antica ricetta, a motivare la mia scelta che appariva anomala e ad invitare il pubblico alla prova. Quando finì la scorta, improvvisai una pasta alla Norma e fu subito un enorme successo. Così, anche dovendola acquistare ad un prezzo a volte spropositato e anche dovendo rinunciare alla pienezza del sapore del prodotto stagionale – continua lo chef Barone – ho inserito nel menù di Eataly numerose ricette con la melanzana solo allo scopo di soddisfare le aspettative dei clienti che in una cucina siciliana vogliono trovare parmigiana, caponata e pasta alla Norma. Qui non si può fare una scelta deontologica, ma di comunicazione. Poi però in Sicilia le cose stanno diversamente”.

In realtà a Eataly non si può disporre degli spazi e dell’attrezzatura di una cucina professionale e non si possono utilizzare tutti i prodotti che lo chef vorrebbe, per il vincolo commerciale con l’organizzazione che rende disponibili alla vendita esattamente gli stessi prodotti usatati nelle cucine dei punti ristoro.

“Questo non è un vero ristorante, ma un’area espositiva commerciale, e questi bocconi di Sicilia possono essere visti soltanto come un invito: sono piccoli assaggi di un’esperienza completa che può maturare soltanto lì dove ci sono le giuste condizioni”. E l’invito si trasferisca a Modica, nel suo ristorante inserito nel circuito di strutture per turismo esclusivo “Le soste di Ulisse”, dove e senza restrizioni lo chef siciliano può esprimere l’eccellenza.

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